repubblica italiana
In nome del popolo italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Massimo VARI, Presidente; Riccardo CHIEPPA - Gustavo ZAGREBELSKY - Valerio ONIDA - Carlo MEZZANOTTE - Fernanda CONTRI - Guido NEPPI MODONA - Piero Alberto CAPOTOSTI - Annibale MARINI - Franco BILE - Giovanni Maria FLICK - Francesco AMIRANTE, Giudici
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 262 del codice penale promosso con ordinanza emessa il 22 febbraio 2001 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di B.G. ed altri, iscritta al n. 614 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 22 febbraio 2001 - nel corso di un processo penale nei confronti di persone imputate del reato di cui all’art. 262 del codice penale (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione) per avere, rispettivamente, consegnato a persona non legittimata e ottenuto documenti contenenti notizie a carattere «riservato», relative alla costruzione di un carcere di massima sicurezza - il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato art. 262 del codice penale, per contrasto con gli
artt. 3 e 25 della Costituzione.
L’ordinanza di rimessione - pronunciata nell’udienza preliminare - rileva, in via preliminare, come, contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina, la norma impugnata non possa considerarsi implicitamente abrogata dalla
legge 27 ottobre 1977, n. 801, la quale ha definito bensì il concetto di segreto di Stato, ma senza nulla disporre in ordine alla materia delle «notizie riservate», che pure formano oggetto di tutela nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato. Le due nozioni risulterebbero, d’altro canto, tra loro distinte, dovendo il segreto essere inteso come notizia che non può essere divulgata in ragione dei superiori interessi dello Stato, e la notizia riservata, invece, come un quid minus, ossia come informazione che può essere divulgata solo a certe condizioni e a determinate categorie di persone per ragioni di «alta amministrazione».
La disposizione denunciata - qualificabile come norma penale in bianco - violerebbe peraltro il principio di tassatività della legge penale, sancito
dall’art. 25 Cost., in quanto non delineerebbe i tratti salienti della fattispecie punibile, lasciandone la determinazione all’autorità amministrativa.
Al riguardo, il giudice a quo ricorda come questa Corte abbia in più occasioni affermato che il principio di legalità non è violato quando sia una legge dello Stato ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti emessi dall’autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la pena; mentre spetta poi al giudice penale indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato legittimamente emesso.
Tale condizione non risulterebbe tuttavia soddisfatta nella specie, giacché l’individuazione concreta delle notizie che non possono essere divulgate, agli effetti dell’art. 262 cod. pen., verrebbe affidata ad atti amministrativi emessi in virtù di poteri non direttamente conferiti dalla legge e senza alcuna precisazione in ordine al concetto di notizia riservata, i cui limiti resterebbero pertanto - a differenza di quanto avviene per il segreto di Stato, in virtù della citata
legge n. 801 del 1977 - «assai incerti e labili». La circostanza che l’art. 262 cod. pen. non indichi i motivi per i quali la divulgazione delle notizie può essere vietata, rimettendoli così anch’essi in toto all’apprezzamento dell’autorità amministrativa, impedirebbe d’altro canto al giudice di valutare se il divieto di divulgazione sia stato legittimamente imposto.
Sotto diverso profilo, poi, la norma impugnata, nel comminare una pena identica nel massimo a quella stabilita dall’art. 261 cod. pen. per il reato di rivelazione di segreti di Stato (ventiquattro anni di reclusione) - essendo il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie differenziato solo in rapporto al minimo - si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. L’equiparazione della pena massima risulterebbe difatti priva di giustificazione, stante la diversità dei beni protetti dalle due norme incriminatrici: infatti l’art. 261 cod. pen. tutelerebbe - alla luce della definizione del segreto di Stato data dall’art. 12 della
legge n. 801 del 1977 - l’unità fisica dello Stato rispetto ad attacchi esterni od interni, ed il continuo e corretto funzionamento degli organi costituzionali; mentre l’art. 262 cod. pen. sarebbe posto a salvaguardia di interessi non individuabili a priori, ma comunque privi di rango costituzionale e di minore valore.
La disposizione denunciata violerebbe, da ultimo, il principio di legalità della pena, stabilito d
all’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione dell’eccessivo divario tra la pena edittale minima da essa comminata (anni tre di reclusione, riducibili a due nel caso di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, o a pena ancora inferiore ove si proceda con riti alternativi) e quella massima (anni ventiquattro di reclusione, quale limite desumibile, in difetto di specifica indicazione, dall’art. 23 cod. pen.).
Richiamando la sentenza di questa Corte n. 299 del 1992, il rimettente rileva come il principio di legalità della pena non imponga al legislatore di determinare in misura rigida e fissa la pena per ciascun tipo di reato, poiché lo strumento più idoneo al conseguimento delle finalità della pena e più congruo rispetto al principio di uguaglianza è quello del conferimento al giudice del potere discrezionale di stabilire in concreto, fra un minimo e un massimo, la sanzione da irrogare, al fine di adeguare quest’ultima alle specifiche caratteristiche del singolo caso. Tuttavia, la determinazione legislativa del minimo e del massimo edittale non deve eccedere il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena, secondo i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., in correlazione alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta: altrimenti, la predeterminazione della misura della pena diverrebbe solo apparente e il potere conferito al giudice si trasformerebbe da discrezionale in arbitrario, investendo non più soltanto la valutazione delle particolarità del caso singolo, ma la stessa individuazione del disvalore del fatto tipico (compito che spetta invece al legislatore).
Tale ultima situazione ricorrerebbe puntualmente nell’ipotesi dell’art. 262 cod. pen., in quanto - pur tenendo conto delle circostanze aggravanti speciali da esso previste, che comportano in determinati casi un aumento della pena minima - l’eccessiva ampiezza della forbice tra il minimo ed il massimo edittale finirebbe, in pratica, per rimettere al giudice anche la valutazione del disvalore oggettivo del fatto, tanto più a fronte della rimarcata incertezza sulla componente precettiva della norma incriminatrice.
2. - Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso dell’Avvocatura erariale, non sarebbe riscontrabile alcuna violazione del principio di tassatività: la norma incriminatrice reprimerebbe, infatti, una condotta i cui contorni risultano sufficientemente definiti, non potendosi trarre argomento, in contrario, dalla circostanza che sia la pubblica autorità a stabilire quali notizie debbano considerarsi riservate. La lamentata impossibilità di controllo e di eventuale disapplicazione dell’atto amministrativo, d’altro canto, lungi dal costituire un vulnus del principio di tassatività, discenderebbe proprio dalla previsione della norma incriminatrice, la quale, a differenza che in altre ipotesi, non richiederebbe, fra gli elementi del fatto tipico, un atto legittimo.
Quanto, poi, alla presunta violazione
dell’art. 25, secondo comma, Cost., il divario fra il massimo e il minimo della pena edittale previsto per il delitto in questione, ancorché significativo, non comporterebbe comunque l’incostituzionalità della norma impugnata, spettando pur sempre al legislatore di graduare la pena in modo che il giudice di merito possa adeguarla al caso concreto, così da renderla funzionale al perseguimento dei suoi scopi.
Analoghe conclusioni potrebbero formularsi ove si effettui una comparazione con la pena prevista dall’art. 261 cod. pen., che risulterebbe adeguatamente elevata nel minimo, in conseguenza del ritenuto maggior disvalore insito nell’aggressione ad un bene meritevole di particolare considerazione, quale il segreto di Stato.
Considerato in diritto
1. - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli
artt. 3 e 25 della Costituzione, dell’art. 262 del codice penale, che, con disposizione collocata nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato, punisce chiunque rivela od ottiene «notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione» (c.d. notizie riservate).
Ad avviso del rimettente, risulterebbe leso anzitutto il principio di tassatività della legge penale, sancito
dall’art. 25 Cost., essendosi al cospetto di una norma penale in bianco rispetto alla quale mancherebbe una sufficiente specificazione legislativa dei presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei provvedimenti amministrativi alla cui trasgressione deve seguire la pena: carenza, questa, che - segnatamente a fronte del silenzio della legge circa i fini per i quali il divieto di divulgazione di determinate notizie può essere imposto - precluderebbe anche il sindacato incidentale di legittimità del giudice ordinario sul provvedimento, in vista della sua eventuale disapplicazione.
La norma incriminatrice impugnata - comminando una pena uguale, nel massimo, a quella prevista dall’art. 261 cod. pen. per il delitto di rivelazione di segreti di Stato (anni ventiquattro di reclusione) - si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 3 Cost. Si tratterebbe, infatti, di equiparazione irragionevole, stante la diversità dei beni protetti dalle due disposizioni: beni che, nel caso dell’art. 261 cod. pen., si identificherebbero - alla luce della definizione del segreto di Stato offerta dall’art. 12 della legge
24 ottobre 1977, n. 801 - nell’unità fisica dello Stato rispetto ad attacchi interni o esterni, e nel continuo e corretto funzionamento degli organi costituzionali; e nell’ipotesi dell’art. 262 cod. pen., invece, in interessi non individuabili a priori, ma comunque privi di rango costituzionale.
Sarebbe violato, infine, il principio di legalità della pena, enunciato
dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’eccessivo divario tra la pena edittale minima e massima comminata per il delitto in questione - rispettivamente tre anni di reclusione (che potrebbero scendere a due, in caso di concessione delle attenuanti generiche, e a pena ancora inferiore nell’ipotesi di ricorso a riti alternativi) e ventiquattro anni di reclusione (quale limite desumibile, in difetto di specifica indicazione, dall’art. 23 cod. pen.) - lascerebbe infatti al giudice un margine talmente ampio, da rendere arbitrario il suo potere di determinazione della pena in concreto; tale potere, pertanto, cesserebbe di essere strumentale all’esigenza di adeguamento della risposta sanzionatoria al caso singolo, per investire lo stesso apprezzamento del disvalore del fatto tipico: compito, questo, riservato per contro al legislatore.
2.1. - La prima delle tre censure di costituzionalità non è fondata.
Essa poggia, infatti, sulla premessa interpretativa della impossibilità di riferire alla categoria delle «notizie riservate», protette dall’art. 262 cod. pen., le indicazioni rinvenibili nella
legge n. 801 del 1977 a proposito del segreto di Stato. Da tale premessa il giudice a quo trae il duplice corollario dell’eterogeneità delle due classi di notizie (segrete e riservate), sul versante degli obiettivi di tutela; e della sostanziale indeterminatezza delle condizioni legittimanti l’apposizione del divieto di divulgazione, presidiato dalla norma incriminatrice impugnata: norma la cui operatività verrebbe perciò a dipendere da valutazioni dell’autorità amministrativa, svincolate da ogni parametro legale e insindacabili da parte del giudice penale.
L’indicata premessa interpretativa è stata, peraltro, recentemente contraddetta dalla Corte di cassazione, la quale, con decisione successiva all’ordinanza di rimessione (cfr. Sez. I, 10 dicembre 2001-29 gennaio 2002, n. 3348), si è espressa nell’opposto senso che le notizie riservate - intese come notizie «delle quali, pur conosciute o conoscibili in un determinato ambito, è vietata la divulgazione con provvedimento dell’autorità amministrativa» - costituiscono categoria omogenea, sul piano dei requisiti oggettivi di pertinenza e di idoneità offensiva, rispetto a quella delle notizie sottoposte a segreto di Stato. Facendo leva sul collegamento storico-sistematico riscontrabile tra le due categorie di notizie, e traendo altresì specifico argomento dal regime delle esclusioni del diritto di accesso delineato dall’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dalla relativa normativa regolamentare di attuazione, il Giudice di legittimità ha affermato, più in particolare, non soltanto che le notizie riservate debbono inerire ai medesimi interessi che, a mente dell’art. 12 della
legge n. 801 del 1977, giustificano il segreto di Stato; ma altresì che la loro diffusione deve risultare idonea - al pari di quanto avviene per le notizie sottoposte a segreto di Stato, in forza della norma definitoria da ultimo citata - a recare un concreto pregiudizio ai predetti interessi. Nella medesima decisione si precisa, inoltre, che il divieto di divulgazione, analogamente a quello impositivo del segreto di Stato - concorrendo ad integrare la componente precettiva della norma incriminatrice - resta soggetto a sindacato di legittimità da parte del giudice penale, segnatamente in rapporto agli accennati requisiti di inerenza contenutistica e di attitudine offensiva della notizia che ne costituisce oggetto.
Viene prospettata, in tal modo, una possibile lettura del quadro normativo, che si presta a sottrarre la disposizione impugnata al sospetto di violazione del principio di tassatività della fattispecie di reato, nonché del principio di legalità in materia penale sotto il profilo della riserva di legge (anch’esso sostanzialmente evocato dalla doglianza del giudice a quo). Al lume di tale lettura, risulta difatti rinvenibile nella legge una sufficiente specificazione dei presupposti, del carattere, del contenuto e dei limiti dell’atto di natura amministrativa che impone il divieto assistito da sanzione penale, tale da permettere un efficace controllo incidentale di legittimità dell’atto medesimo (cfr., ex plurimis, sentenze n. 333 del 1991 e n. 282 del 1990).
Resta comunque auspicabile che il legislatore si faccia carico dell’esigenza di una revisione complessiva della materia in esame: esigenza avvertita, per vero, già all’epoca dell’emanazione della
legge n. 801 del 1977, il cui art. 18 assegnava carattere di «transitorietà» al regime delineato dal titolo I del libro II del codice penale, in vista dell’emanazione di una «nuova legge organica relativa alla materia del segreto».
2.2. - Manifestamente inammissibili risultano, invece, le residue censure, che ineriscono in via esclusiva al trattamento sanzionatorio della figura criminosa.
La questione è stata sollevata, infatti, dal giudice rimettente nella veste di giudice dell’udienza preliminare: veste nella quale egli non è chiamato a determinare la pena per il fatto per cui si procede, essendo il suo potere decisorio, nel caso di specie, circoscritto all’alternativa fra la sentenza di non luogo a procedere e il decreto che dispone il giudizio.
La dedotta irragionevolezza della pena massima e l’asserita eccessiva ampiezza del divario fra il massimo e il minimo della pena edittale, previsto dall’art. 262 cod. pen., non vengono pertanto in alcun modo in rilievo nel perimetro del thema decidendum del giudice a quo (cfr., sempre in riferimento all’art. 262 cod. pen. e con riguardo a situazione processuale analoga, ordinanza n. 156 del 2000).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 del codice penale sollevata, in riferimento
all’art. 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 del codice penale, nella parte relativa al trattamento sanzionatorio, sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 25 della Costituzione, dal predetto giudice con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.
Il Presidente: Massimo VARI
Il Redattore: Giovanni Maria FLICK
Il Cancelliere: Giuseppe DI PAOLA
Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2002.
Il Direttore della Cancelleria: DI PAOLA